Revista nº 210. Ability to pay and equality principle

ABILITY TO PAY AND EQUALITY PRINCIPLE

1. Premessa

Vorrei innanzitutto dare conto delle ragioni che mi hanno spinto a consigliare al collega Rosembuj di dedicare la sessione conclusiva di questo convegno ai principi costituzionali che presiedono alla ripartizione delle imposte, e cioè ai principi costituzionali di giustizia distributiva e di capacità contributiva.

Le ragioni sono abbastanza semplici.

Mi è sembrato che lo sviluppo caotico degli attuali sistemi fiscali, “l”invenzione” di nuovi tributi che hanno passato il vaglio delle Corti costituzionali dei singoli paesi e della Corte di Giustizia UE, nonché la deformazione del modello originario di altri richiedessero un ripensamento o, se preferite, una maggiore riflessione su ciò che, nei tempi attuali, deve considerarsi l”essenza e, insieme, la giustificazione dell”imposizione.

Il fatto poi che le disuguaglianze in Italia e in Spagna sono aumentate fino a portarci agli stessi livelli del Cile, del Brasile, degli USA e di Israele – e cioè di quei paesi notoriamente caratterizzati da un forte tasso di disuguaglianza – induce a prendere posizione sulle seguenti domande quanto alla nozione di capacità contributiva: se le disuguaglianze si misurano ormai sul piano socio-economico con riferimento non più al solo reddito disponibile e alla ricchezza netta (applicando, cioè, il tradizionale indice di Gini), ma anche ad altri beni, non sarebbe opportuno che lo Stato assuma anche tali beni – e non solo i redditi e i patrimoni – quali indici di capacità contributiva in tutti i casi in cui essi sono economicamente valutabili, e dalla loro disponibilità se ne tragga un vantaggio in termini di soddisfazione dei bisogni? E in tali casi, non sarebbe sufficiente assumere come unico limite alla tassazione il principio di uguaglianza e i suoi corollari di ragionevolezza, coerenza e congruità?

È evidente che alla base di queste domande c”è il delicato problema della esatta nozione di capacità contributiva e dell”essere essa o meno una mera espressione o un quid pluris del principio di uguaglianza. Tale problema affligge ormai da tempo la dottrina tributaria e, almeno a mio avviso, si pone ora con maggiore intensità, considerato che il livello della pressione tributaria sui tradizionali beni di natura reddituale e patrimoniale sta raggiungendo ormai livelli insostenibili e che quindi, sul piano delle politiche fiscali, i governi tendono sempre più a ricercare nuovi, alternativi tipi di presupposti impositivi, con il fine specifico non solo di finanziare la crescita e lo sviluppo, ma anche di tenere in piedi il già traballante Stato sociale.

Dal punto di vista del giurista tale problema si pone, più correttamente, nei termini che si possono cosí sintetizzare:

– se la capacità contributiva richiesta per realizzare il concorso alle pubbliche spese debba essere intesa come una capacità economica qualificata espressa da fatti e circostanze che presuppongono necessariamente una specifica disponibilità patrimoniale da parte del soggetto passivo dell”obbligazione tributaria. È questa la tesi tradizionale, ora prevalente, che definisce la capacità contributiva come ability to pay;

– o se invece ci sia spazio per definire la capacità contributiva come mero criterio di riparto, e cioè come un criterio che autorizza a scegliere il soggetto passivo d”imposta in relazione a fatti e atti, da lui posti in essere, che non dimostrano necessariamente una forza economica a contenuto patrimoniale, ma attribuiscono ad essi solo vantaggi economicamente e socialmente rilevanti.

2. La nozione di tributo come strumento di giustizia distributiva

Chi ha letto i miei più recenti scritti, sa che la mia preferenza va verso la seconda opzione. La motivo molto sinteticamente, prendendo le mosse dall”evoluzione storica che negli ultimi cinquant”anni ha avuto la nozione di tributo.

Ho già detto in altra sede che questa evoluzione è avvenuta di pari passo con quella del tipo di Stato. Dalle tasse-corrispettivo dello Stato liberista ottocentesco si è passati, infatti, al complesso sistema tributario dello Stato sociale del secondo Novecento. In questo contesto il tributo ha trovato, nella successione storica, diverse giustificazioni a seconda che le politiche economiche statali fossero improntate all”uno o all”altro dei due tradizionali filoni dell”ideologia liberale: il filone, appunto, che definirei neo-liberista, più incline a privilegiare in un”ottica contrattualistica i diritti proprietari a fronte dell”interesse pubblico al prelievo fiscale e a svalutare, di conseguenza, l”intervento regolatore e di mediazione dello Stato; il filone, all”opposto, egualitario, solidaristico e welfaristico, repulsivo del modello dello “Stato minimo” e rivalutativo delle regole fiscali (re)distributive rispetto alla primazia dei medesimi diritti proprietari.

È da questo secondo filone che deve ricavarsi nell”era contemporanea una definizione del tributo quale strumento di giustizia distributiva e, di conseguenza, una corrispondente piú aggiornata nozione di capacità contributiva. E”, in particolare, l”indicato contesto distributivo e solidaristico che caratterizza il modello dello Stato sociale e che porta a considerare i tributi non piú con esclusivo riferimento al loro impatto sulla proprietà privata e agli effetti di tale impatto, ma quale parte inestricabile di un moderno sistema complessivo di diritti proprietari e di regole di mercato, che le stesse norme tributarie concorrono a creare, limitare o, a seconda dei casi, ad espandere e tutelare nel rispetto dei princípi fondamentali di legalità, solidarietà e uguaglianza formale e sostanziale. In questo contesto, giustizia o ingiustizia nella tassazione dovrebbero significare giustizia o ingiustizia in quel sistema “convenzionale” di diritti proprietari ed economici, quale risulta (anche) dal regime legale di tassazione.

Se cosí è, dovrebbe essere giunto il momento di prendere atto dell”esaurimento del ciclo storico in cui i diritti proprietari costituivano gli unici presupposti di equità del sistema fiscale e gli unici misuratori dell”eticità della tassazione. E ciò perché nella diversa ottica solidaristica, egualitaria e teleologica, propria dei sistemi improntati al moderno costituzionalismo partecipativo, il prelievo tributario non può piú continuare ad essere giustificato in termini etici dal solo fatto che il relativo gettito è diretto a proteggere i diritti individuali libertari e a remunerare solo i servizi pubblici “essenziali” resi dall”ente pubblico. Nelle società liberal-democratiche la persona non si identifica piú con l”homo oeconomicus e, perciò, con ogni diritto proprietario, nato prima, senza e perfino contro lo Stato e la società. Va al contrario considerata nella sua complessità di essere politico, sociale e morale, che può essere chiamata a concorrere alle pubbliche spese attraverso i tributi anche per il solo fatto di realizzare un presupposto espressivo di una posizione di vantaggio indipendentemente dalla sua titolarità di diritti proprietari.

Almeno sotto il profilo funzionale, il tributo non è, quindi, solo un praemium libertatis o l”altra faccia negativa del costo dei diritti, come taluno ancora sostiene in Italia e come è argomentato in un noto saggio degli anni “90 di S. Holmes e C. R. Sunstein dall”omonimo titolo. In un mondo disuguale quale il nostro, esso è soprattutto uno strumento di attuazione del principio fondamentale di giustizia distributiva che, secondo le diverse opzioni politiche e di politica economica, lo Stato e gli enti dotati di autonomia politica e finanziaria hanno in concreto a disposizione per superare le emergenze, per travalicare le opportunità del mercato e per correggerne le distonie e le imperfezioni, a favore delle libertà individuali e collettive.

3. Una nuova nozione di capacità contributiva

E” con riferimento alla descritta evoluzione della nozione funzionale di tributo che sono emerse le problematiche attinenti al concetto di capacità contributiva e alla definizione dei limiti qualitativi e quantitativi all”imposizione. Tali problematiche hanno interessato la maggior parte delle Corti costituzionali dei paesi UE e, soprattutto, il Tribunale costituzionale federale tedesco che su tale tema ha pronunciato due importanti sentenze, tra loro contraddittorie, prima nel 1995 e poi nel 2006, di cui dirò più avanti.

La mia opinione è che la capacità contributiva debba essere definita in un”ottica meramente distributiva e, quindi, solo come criterio di riparto. Ritengo, in particolare, che la ripartizione del carico pubblico deve avvenire per la soddisfazione dell”interesse generale e in base a scelte di ordine sociale fatte dal legislatore nella sua discrezionalità, scelte che possono anche escludere il riferimento a una ricchezza del contribuente avente contenuto patrimoniale. Se si definisce la funzione fiscale come una vera e propria funzione di riparto del carico pubblico tra i consociati, non può che conseguirne l”inevitabile scissione della persona del contribuente dalla sua proprietà. E” insomma il solo fatto dell”inserimento di essa in un contesto costituzionale e sociale e non quello della sua identificazione con un soggetto titolare di diritti soggettivi a contenuto patrimoniale che giustifica, in via generale e astratta, l”assunzione della persona stessa a soggetto passivo d”imposta in relazione anche a indici di potenzialità economica rappresentati da posizioni e valori – “capacitazioni”, direbbe Amartha Sen – solo socialmente rilevanti, purchè espressivi, in termini di vantaggio di una capacità differenziata economicamente valutabile. Se la persona non è un homo economicus “ridotto a proprietà”, ma un soggetto da questa disgiungibile immerso nelle relazioni sociali, è perfettamente lecito che essa sia tassata, per autonoma scelta del legislatore, in relazione a capacità sprigionate dal suo solo insistere nella società e legate alla soddisfazione di sue esigenze: capacità, dunque, espresse da situazioni, fatti o atti vantaggiosi, anche estranei al meccanismo del mercato e dello scambio e assumibili, appunto, dal legislatore stesso quali presupposti d”imposta.

Non mi convince, pertanto, la tesi tradizionale che definisce invece la capacità contributiva come capacità economica qualificata, e la misura con il solo metro della incidenza della tassazione sulla proprietà. I fautori di tale tesi non chiariscono sufficientemente quale sarebbe il collegamento tra la capacità contributiva così intesa e il principio del “concorso doveroso” di ogni cittadino alle pubbliche spese che pure essi stessi riconoscono.

Mi spiego meglio. Mi sembra non soddisfacente e per certi versi contraddittorio, da una parte, accettare la giustificazione del prelievo tributario in termini di dovere sociale e di solidarietà e, dall”altra, attribuire alla capacità contributiva, intesa come ability to pay, la funzione di limite oggettivo e indeclinabile al riparto medesimo, individuando tale limite nel fatto dell”assenza nel presupposto d”imposta di una disponibilità patrimoniale sufficiente a pagare il tributo.

In questa ottica, la capacità contributiva, assunta in termini soggettivi quale garanzia della “persona”, si traduce in termini oggettivi in un insuperabile limite di natura patrimoniale che vieterebbe al legislatore fiscale di far concorrere alle pubbliche spese quei soggetti che, pure essendo titolari di rilevanti posizioni di vantaggio economicamente valutabili (quelli che M. Nussbaum chiama “beni capacità”), tuttavia non hanno la suddetta disponibilità patrimoniale perché non hanno posto in essere un presupposto contenente in sé entità patrimoniali.

Si vuole con ciò comprimere la discrezionalità del legislatore fiscale, imponendogli di assumere quali indici di capacità contributiva solo situazioni, fatti e rapporti che, dovendo essere patrimonialmente rilevanti, devono anche essere, in quanto tali, disponibili e scambiabili sul mercato, e perciò necessariamente oggetto di un diritto proprietario?

Non è abbastanza chiaro, in tale impostazione, quali siano i princípi su cui si dovrebbe fondare un siffatto limite al potere di riparto. L”unico principio che potrebbe invocarsi al riguardo è forse quello della tutela della persona assunta come entità soggettiva inscindibilmente connessa con i suoi diritti proprietari: tutela che, in forza di tale stretta connessione, ridonderebbe automaticamente e in maniera assoluta anche su questi diritti. Si intende, forse, con ciò sostenere che nella materia fiscale la tutela dei diritti proprietari deve continuare a coincidere con quella della persona-individuo e perciò deve prevalere, sempre e istituzionalmente, su quella dei diritti sociali e sulle esigenze di finanziamento di questi, fino al punto di porsi come un limite quantitativo e qualitativo all”imposizione? O si ritiene, invece, che il limite oggettivo della disponibilità patrimoniale debba in ogni caso coesistere con la possibilità di attuare, attraverso la legge, un trade off tra i diritti sociali e i diritti proprietari? Ma se si ammette la possibilità di effettuare tale bilanciamento, come si giustifica allora, quanto meno in termini di ragionevolezza, l”assunzione della disponibilità di un saldo patrimoniale attivo quale condizione assoluta e insuperabile di legittimità della tassazione e, quindi, quale limite invalicabile di essa?

L”impressione che si ha è che, nel porre un suddetto limite patrimoniale e nel fissare una tale condizione di legittimità, si finisce con l”esprimere, forse inconsapevolmente, un giudizio politico ed ideologico di equivalenza tra rispetto della persona e rispetto dei suoi diritti proprietari nella loro interezza (e non nel loro “nucleo essenziale”), senza fornirne un”adeguata motivazione giuridica e, comunque, bypassando la soluzione di problemi rilevantissimi, di cui ho fatto cenno, tipo: se la “persona”, che una nozione qualificata di capacità contributiva dovrebbe garantire, vada ricondotta alla categoria della “persona-individuo” di lockeana memoria, identificantasi con la titolarità dei diritti proprietari, o, invece, a quella di “persona sociale”, considerata come centro di responsabilità sia individuali che collettive. Questo chiarimento è necessario, perché il riferimento alla “persona-individuo” legittimerebbe il suddetto giudizio di equivalenza, mentre il riferimento alla “persona sociale” presupporrebbe, al contrario, l”identificazione della persona come entità comunitaria e la divaricazione di essa dai suoi diritti proprietari e, quindi, non giustificherebbe l”apposizione di limiti oggettivi assoluti di natura patrimoniale al (ragionevole) finanziamento dei diritti sociali a mezzo tributi chiesto a chi è in una posizione di vantaggio.

Se si ritiene, come io ritengo, che la persona deve considerarsi quale “persona sociale” e, conseguentemente, la proprietà deve essere disgiunta da essa e, al pari degli altri diritti economici, essere posta allo stesso livello dei diritti sociali (quale altra faccia di tali diritti), non è difficile giungere alla conclusione, di cui ho dato già conto, che l”osservanza del dovere contributivo non può essere condizionata dalla titolarità in termini assoluti di un diritto proprietario. Solo la non conformità ai princípi di ragionevolezza, coerenza, congruità e proporzionalità  e non l”apposizione di limiti esclusivamente aritmetici  può, quindi, condurre a ritenere confiscatorio o irragionevolmente eccessivo il singolo prelievo.

Su questa linea, seppur in un parzialmente diverso contesto costituzionale, si è posto, come ho detto, nel 2006 il Tribunale costituzionale federale tedesco per quanto riguarda l”esistenza di limiti alla pressione tributaria complessiva. Tale Tribunale ha ritenuto ammissibile un”imposizione complessiva sui redditi di un imprenditore superiore al 50% (BVerfG, II Senato, ord. 18 gennaio 2006 – 2 BvR 2194/99, in NJW 2006, 1191), dopo che in una sentenza precedente del 1995 aveva affermato il contrario, e cioè che tale quota costituiva la soglia massima di imposizione complessiva costituzionalmente ipotizzabile (c.d. Halbteilungsgrundsatz – BVerfGE 93,121). Con la nuova sentenza i giudici hanno affermato che il precedente del 1995 va interpretato non nel senso di porre un tetto massimo alla tassazione, ma solo in quello di gettare le basi per un giudizio di ragionevolezza circa la tassazione medesima, giudizio che è previsto implicitamente dalla disposizione dell”art. 14, comma 2, GG, secondo cui «la proprietà deve al contempo servire anche al bene comune». Secondo il Tribunale, il prelievo fiscale incontra sicuramente dei limiti, ma tali limiti vanno rinvenuti non in elementi aritmetici, ma nel principio di proporzionalità e nella garanzia del solo “nucleo essenziale” del diritto alla proprietà privata.

4. I c.d. “beni-capacità”

Se ci si pone in questa ottica distributiva non è perciò difficile rinvenire l”oggetto della tassazione e, quindi, assumere quali validi indici di capacità contributiva anche quei “beni capacità” i quali – come più volte detto -, pur non essendo beni economici tradizionali come il reddito o il patrimonio, se economicamente valutabili, possono parimenti costituire valide, significative e dirette misurazioni comparative di situazioni individuali di vantaggio. Voglio dire con ciò che la loro disponibilità deve essere assunta, per consapevole scelta delle maggioranze politiche, quale ulteriore indice concreto di una capacità contributiva differenziata dei soggetti che da essa traggono un vantaggio economico in termini di human functioning, vale a dire di soddisfazione di bisogni o interessi e di maggiore benessere (se non anche di potere). Naturalmente, devono essere beni e servizi della vita, monetizzabili e suscettibili di valutazione economica, e non beni universali garantiti a tutti dallo Stato e, quindi, di generale non differenziata fruizione. Ai “beni capacità” il prelievo deve essere, in particolare, giustificato dal fatto che nel contesto sociale i soggetti comunitari che ne sono titolari e ne fruiscono risultano singolarmente e comparativamente “più uguali” nella capacità di funzionare e, quindi, avvantaggiati dalla loro disponibilità e dal loro godimento rispetto a quelli che non lo sono affatto o lo sono in misura minore.

Prelievi di questo tipo sono, ad esempio, quelli – già richiamati – che gravano su chi utilizza beni ambientali scarsi o emette gas inquinanti deteriorando l”ambiente (e cioè beni che colpiscono entità non reddituali, non patrimoniali, prive comunque di un diretto valore patrimoniale e insuscettibili di essere scambiate sul mercato contro denaro). Ma dello stesso tipo sono sia i tributi che colpiscono il valore aggiunto economico o, comunque, altre entità anch”esse non omologabili interamente al reddito o al patrimonio (e cioè le c.d. business taxes, conosciute in Germania come gewerbesteuer, in Francia come tax professionelle), sia quelli gravanti sulle transazioni finanziarie (e cioè sulla ricchezza mobiliare là dove si forma), sia quelli – parapatrimoniali – che colpiscono le più diverse forme di occupazione dell”etere (le c.d bit tax) sia last but not least, la raccolta predatoria gratuita dei dati compiuta dalle imprese dell”economia digitale per produrre redditi tassati in Stati a più bassa fiscalità.

Già gli ordinamenti dei paesi occidentali conoscono ed applicano da tempo alcuni di tali tipi di tassazione gravanti su entità che non possono fornire i saldi patrimoniali attivi necessari alla provvista. E” questo il caso dell”autoconsumo (in particolare, dei redditi derivanti dalla destinazione di beni a finalità estranee all”esercizio di impresa) o dei redditi in natura (i c.d. fringe benefits costituiti dall”uso di un”abitazione o di un”auto), o dei diritti puramente figurativi, come possono essere quelli derivanti dall”applicazione delle regole di transfer pricing, per i quali è di tutta evidenza la insussistenza di una ability to pay intesa come disponibilità patrimoniale. Ma è anche il caso sia del consumo oggetto delle omologhe imposte, in cui la disponibilità delle somme necessarie a pagarle è sicuramente estranea al presupposto, sia dei patrimoni colpiti dalle imposte reali, in cui il saldo attivo può non esistere data l”assoluta estraneità delle componenti negative alla identificazione del loro presupposto, sia di quei redditi d”impresa imponibili che risultano insufficienti a coprire i debiti contratti dal titolare dell”impresa, sia, ancora, della produzione organizzata di beni assoggettata alle accise, in cui il fatto dell”immissione al consumo dei beni stessi – assunto dal legislatore quale presupposto legittimativo dell”imposizione – non contiene certo in sé la disponibilità della provvista per pagare il tributo.

E” evidente l”importanza di forme di imposizione di questo tipo. In momenti, come questi, di crisi fiscale dello Stato esse consentirebbero di raggiungere l”obiettivo di spostare la pressione tributaria dal reddito e da determinati tipi di patrimonio a nuovi e più accettabili indici di capacità contributiva. Prevedendo questi prelievi, non ci si deve evidentemente porre il problema di distinguere tra presupposti che contengono o non contengono elementi reddituali o patrimoniali (e cioè la provvista necessaria a pagare il tributo). Ci si deve solo preoccupare di rispettare il principio di capacità contributiva, inteso come lo abbiamo finora inteso, come equo criterio di riparto espressivo del principio di uguaglianza. Seppur in un diverso contesto costituzionale, anche fuori del continente europeo si stanno imponendo interpretazioni che qualificano alcune forme di prelievo astraendo dal reddito, dal patrimonio e dal consumo e le giustificano esclusivamente in ragione della mera potenzialità di godimento di beni della vita. Questo è il caso di un particolare tipo di prelievo introdotto in USA dalla recente riforma sanitaria del presidente Obama, prelievo che è stato qualificato dalla Corte Suprema USA «prestazione obbligatoria patrimoniale di natura tributaria», da corrispondere in aggiunta all”ordinaria imposta sul reddito, ancorché la legge impugnata lo considerasse solo una sanzione comminata per non avere il soggetto contratto l”assicurazione sanitaria. La Corte Suprema ha ritenuto, in particolare, che l”obbligo fissato dalla legge di pagare tale somma trova la sua giustificazione esclusivamente nel comportamento negativo del cittadino che ostacola la fruizione, da parte degli altri, del bene pubblico collettivo assistenza sanitaria, comportamento da correggere con lo strumento tributario per ragioni di uguaglianza e giustizia distributiva (la sentenza della Corte parla di “responsabilità condivisa”).

5. Il bilanciamento tra diritti proprietari, diritti sociali e finanziamento di questi ultimi a mezzo tributi nell”ordinamento UE

Quanto finora detto ci porta a ritenere che nella maggior parte dei sistemi costituzionali dei paesi dell”UE i diritti proprietari non prevalgono sui diritti sociali e non sono in alcun modo predefiniti nel quantum. Essi sono nel loro contenuto disponibili e decidibili con diverse gradazioni in virtù delle stesse regole costituzionali che li riconoscono e delle altre regole stabilite con legge ordinaria dalle maggioranze politiche, ai fini o di giustizia sociale, o distributiva, o di interesse generale, o di pubblica utilità.

Questa conclusione si fonda chiaramente sul presupposto, finora da me evidenziato, che debba esistere una simmetrica connessione fra diritti economici, compresi quelli di proprietà, diritti sociali e finanziamento di questi ultimi mediante imposizione. Si tratta, nella sostanza, di attuare un equo bilanciamento affidato al legislatore ordinario, che porta a restringere o ad ampliare la protezione di un diritto o dell”altro a seconda delle contingenti scelte politiche e a calibrare la leva fiscale in chiave distributiva dei carichi pubblici tra i soggetti che dimostrano una capacità contributiva in quanto titolari di posizioni di vantaggio socialmente rilevanti ed esprimenti, comunque, una potenzialità economica.

Non mi sembra che, allo stato, l”ordinamento dell”UE offra argomenti ne” a favore ne” contro questa conclusione. La Carta dei diritti fondamentali dell”UE (la c.d. Carta dei diritti di Nizza inserita nell”ordinamento comunitario dal Trattato di Lisbona), nel sottolineare con il suo art. 17 la natura fondamentale del diritto di proprietà sulla falsariga dell”art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, si guarda bene dal prendere netta posizione su questi temi, limitandosi a riconoscere come unico limite esterno del diritto di proprietà l”interesse generale e la pubblica utilità . Con la disposizione dell”art. 52, comma 3, essa sembra anzi fissare a livello comunitario una regola di carattere generale che, se anelasticamente e autonomamente interpretata, potrebbe prestarsi, a prima vista, a disgiungere piuttosto che a connettere e bilanciare i due tipi di diritti. Tale articolo dispone, nella prima parte del suo terzo comma, che il significato e la portata dei diritti fondamentali contenuti nella Carta di Nizza sono uguali a quelli dei corrispondenti diritti garantiti dalla CEDU e, nella seconda parte, che tale equivalenza può essere superata solo se «il diritto dell”Unione concede una protezione più estesa» del diritto fondamentale in considerazione . Ed è questa seconda parte che potrebbe a taluno offrire un qualche argomento per sostenere che il diritto fondamentale di proprietà deve, nelle intenzioni dei redattori della Carta, «precedere» sempre i diritti sociali (che sarebbero diritti fondamentali affievoliti); con la conseguenza di precludere ai legislatori nazionali la possibilità di bilanciare i diritti proprietari medesimi con quelli sociali, sul presupposto che la limitazione che ne può conseguire si risolverebbe in una riduzione di tutela rispetto a quella CEDU, riduzione non ammessa dallo stesso art. 52, comma 3. Con l”ulteriore conseguenza implicita – che a noi qui più interessa – di ridurre anche i limiti che il fisco può imporre alla proprietà ai fini di finanziamento dei diritti sociali medesimi.

Questa conclusione non è contraddetta, ma nemmeno espressamente convalidata dalla prassi comunitaria e dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE, le quali richiamano il principio dell”economia sociale di mercato e la simmetria tra diritti economici e diritti sociali, senza fare in concreto una precisa scelta su quale dei due valori – sociale o di mercato – debba prevalere.

La mia personale opinione è che la riportata interpretazione delle suddette norme è troppo radicale. Dallo stesso combinato disposto dei richiamati artt. 17 e 52, comma 3, dovrebbe, infatti, desumersi solo la volontà del legislatore comunitario di trattare il diritto proprietario come un prezioso, importante strumento dell”autonomia privata (e, soprattutto, dell”impresa e del mercato), e non come una situazione di dominio esclusivo delle cose tutelata in via originaria e naturale e, perciò, mal sopportante limiti sociali e, comunque, tollerante solo quei limiti tributari necessari alla sua tutela. Non nego che la proprietà è considerata dal complesso di tali disposizioni un diritto fondamentale comunitario, ma ritengo che essa sia pur sempre un diritto fondamentale sui generis, e cioè un diritto che, a differenza di altri diritti dell”uomo, è comprimibile non solo per le ragioni di interesse pubblico e generale richiamate dagli artt. 17 della Carta dei diritti e 1 del Protocollo aggiuntivo alla CEDU, ma anche in tutte le ipotesi in cui la sua compressione (e, cioè, il bilanciamento) sia richiesta dagli invalicabili principi fondamentali, costituzionali ed identitari, dei paesi membri. Nella Costituzione italiana, ad esempio (ma anche in tutte le altre Costituzioni dei paesi UE), tali sono i principi di solidarietà e di uguaglianza su cui si fondano sia i diritti sociali e lo stesso Stato sociale sia, in particolare, la funzionalizzazione della proprietà ai fini sociali.

Coerentemente a tale impostazione, gli stessi redattori della Carta di Nizza non si sono preoccupati di porsi esplicitamente l”ulteriore problema del finanziamento a mezzo tributi dei diritti sociali a scapito di quelli proprietari. Hanno, infatti, preferito lasciarlo impregiudicato a livello comunitario, rimettendone la soluzione all”apprezzamento dei legislatori nazionali, da effettuare nel rispetto dei principi fondamentali conclamati dai singoli sistemi costituzionali, fermo restando l”astratto caveat, di cui al richiamato art. 17, della natura fondamentale anche del diritto proprietario. Nell”attuale situazione, essi non avrebbero potuto fare diversamente, considerato che in ogni caso nell”ordinamento comunitario vige, almeno per ora, l”indiscutibile principio della preservazione dei sistemi tributari nazionali, che rimette al legislatore interno la scelta circa i criteri distributivi fiscali incidenti sulla proprietà. Questo principio, del resto, è dato per presupposto dal secondo comma dello stesso art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU laddove viene sottolineato – con la prudenza e la sana empiria proprie delle normazioni internazionali di principio – che «le disposizioni sulla protezione della proprietà non devono comunque portare pregiudizio al diritto degli Stati di mettere in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per … assicurare il pagamento delle imposte [il corsivo è nostro], di altri contributi o delle ammende».

La neutralità di questa posizione comunitaria trova anche una spiegazione sistematica e teleologica se si colloca la disciplina della proprietà contenuta nella Carta nel diverso sistema assiologico proprio del Trattato CE. Un sistema, cioè, che a) guarda più alla proprietà mobiliare e dematerializzata – per intenderci, a quella proprietà «circolante nel mercato» – che a quella fondiaria, b) induce utilitaristicamente a funzionalizzare in modo esplicito la proprietà medesima ai soli obiettivi comunitari di tutela della concorrenza, dell”impresa e del mercato e, c) di conseguenza, non può che trascurare di considerare l”ulteriore specifico profilo della correlazione tra il tributo, l”incisione della proprietà e il fine di riparto dei carichi pubblici e sociali perseguito dai legislatori interni.

6. Una breve conclusione

In conclusione, se si ragiona ancora nell”ambito dei singoli ordinamenti nazionali, la via da seguire al fine di individuare una più attuale e aggiornata nozione di capacità contributiva dovrebbe essere, in via di principio, quella di evitare l”enfatizzazione del carattere personale proprietario dell”imposizione. Il che significa ricondurre detto principio a quello di uguaglianza sostanziale. Si tratterebbe, in altri termini, di trarre le debite conseguenze dalla congiunzione tra tali due principi superando quelle costruzioni, di sapore un po” fondamentalista, basate sull”identità strutturale persona-proprietà, sul dogma della scambiabilità nel mercato delle entità patrimoniali assunte quale presupposti d”imposta e sulla conseguente dipendenza delle scelte del legislatore fiscale da quelle del mercato stesso.

Se ci si pone su questa via, potrebbe non essere difficile costruire un paradigma della giusta imposizione che sia in armonia con la descritta evoluzione della nozione funzionale di tributo in un modello di “Stato sociale”.

In primo luogo, lo Stato, e cioè il soggetto che interpreta l”interesse pubblico o generale, dovrebbe operare il riparto dei carichi pubblici secondo il principio di giustizia distributiva e di proporzionalità, avendo il fine principale di ridurre le sempre più crescenti disuguaglianze. A tale fine esso dovrebbe preoccuparsi solo che a situazioni di fatto uguali corrispondano uguali regimi impositivi e a situazioni diverse corrisponda un trattamento tributario diseguale e, contemporaneamente, che siano tutelati i diritti inviolabili costituzionali, primo fra tutti quello alla libera e dignitosa sussistenza (il minimo vitale).

In secondo luogo, l”obbligazione tributaria sarebbe personale, nel senso che l”indice di riparto deve in ogni caso essere correlato ad una persona-soggetto passivo d”imposta, che si trova in una posizione di vantaggio economicamente valutabile, anche se l”idoneità all”imposizione che tale persona manifesta – e cioè il bene di cui ha la disponibilità – è espressa da un presupposto che non contiene necessariamente elementi patrimoniali sufficienti a corrispondere il tributo.

In terzo luogo, i tradizionali requisiti dell”effettività e dell”attualità della capacità contributiva dovrebbero essere intesi nel senso che essi sussistono anche quando il presupposto è rappresentato da entità reali, da capacitazioni, anche prive di elementi reddituali e patrimoniali, ma pur sempre esprimenti, come si è più volte detto, una potenzialità economica ed una situazione di vantaggio.

Franco Gallo