Revista nº 210. Tassazione e Diritti Umani

TASSAZIONE E DIRITTI UMANI (*)

SOMMARIO: 1. Oggetto. – 2. Globalizzazione, concorrenza fiscale dannosa e welfare nella “nuova” azione in materia di imposizione diretta dell”Unione Europea. – 3. Politiche fiscali e garanzia dei diritti sociali nell”International Covenant on Economic, Social and Cultural Rights.

1. Oggetto.

L”oggetto di questo intervento, per la potenziale ampiezza del titolo che lo accompagna, deve essere preliminarmente delimitato.

La relazione tra tassazione e diritti umani coinvolge, infatti, numerosi profili giuridici, soprattutto relativi all”applicazione della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell”uomo.

Tra di essi, i più importanti sono quelli relativi all”applicazione dell”art. 1 del Primo Protocollo addizionale sul diritto che ciascuna persona ha al rispetto dei suoi beni. Essi coinvolgono sia la misura del prelievo fiscale, sia la fase della sua attuazione, che – fermi restando gli ampi margini di apprezzamento riservati agli Stati – devono essere sempre ispirate al principio di “proporzionalità”, inteso come corretto bilanciamento tra le prerogative delle autorità pubbliche all”esazione dei tributi e la salvaguardia del diritto di proprietà.

Vi sono tuttavia ulteriori profili tributari relativi all”applicazione della CEDU di rilevante interesse: tra questi, il tema delle sanzioni amministrative tributarie, tradizionalmente ricondotte dalla Corte europea dei diritti dell”uomo tra quelle “accuse penali” cui opera riferimento l”art. 6, par. 1; quello della possibilità di applicare le garanzie processuali previste dal medesimo art. 6 a controversie lato sensu tributarie ma diverse da quelle “strettamente fiscali” (riguardanti l”an e il quantum del tributo) escluse dalla Corte EDU dall”applicabilità dell”art. 6 (nella nota sentenza Ferrazzini); l”art. 8, che tutela il diritto al rispetto della vita privata e familiare, del domicilio e della corrispondenza; l”art. 14, sul divieto di discriminazioni; e via dicendo.

In questo intervento intendiamo tuttavia occuparci di un profilo specificamente attinente al tema di questa conferenza: quello degli effetti dell”evasione ed elusione fiscale internazionale sulla possibilità di assicurare il rispetto dei diritti umani, in particolare quelli economici, sociali e culturali.

Si tratta di un tema che, come vedremo subito, ha ricevuto una attenzione a livello sia dell”Unione europea, sia di organizzazioni internazionali (UN, OCSE, ecc.), sia di associazioni a carattere internazionale (International Bar Association, Tax Justice Network) e che merita pertanto un”adeguata considerazione e riflessione.

2. Globalizzazione, concorrenza fiscale dannosa e welfare nella “nuova” azione in materia di imposizione diretta dell”Unione Europea.

Il tema che ci siamo proposti di approfondire in una prospettiva internazionale si inquadra in quello, di carattere generale ed oggetto di rilevanti contributi teorici, del rapporto tra imposizione, tutela della proprietà e tutela dei diritti sociali ( ).

Esso risulta di straordinaria attualità sia per le conseguenze che la globalizzazione ha avuto sui sistemi di finanziamento statali e sui sistemi impositivi in particolare, sia per il “dilemma” tra aumento dell”imposizione vs diminuzione della spesa pubblica che sta coinvolgendo tanti Paesi interessati dalla crisi finanziaria mondiale e con sistemi di welfare costosi ( ).

I predetti effetti della globalizzazione sono ben noti ( ).

Si assiste, innanzitutto, allo spostamento del luogo di produzione del reddito verso Stati con regimi fiscali e previdenziali più favorevoli, di regola accompagnati da un assetto normativo altrettanto favorevole (per l”impresa) in termini di minore tutela del lavoro e/o dell”ambiente e resi possibili da un sistema di tutela dei diritti sociali (pensioni, sanità, assistenza, istruzione, ecc.) assai blando.

Questo spostamento si traduce, per lo Stato di emigrazione, nella distruzione di potenziale produttivo e di posti di lavoro, in un minor prodotto interno e in una minore domanda, in una minore base imponibile, dunque in un minor gettito; l”opposto accade, di regola, per lo Stato di immigrazione ( ).

Ciò nel migliore dei casi, in cui almeno qualche Stato alla fine … “passa alla cassa”. Al limite estremo, infatti, si pone non il mero “spostamento” bensì la sparizione tout court del luogo di produzione del reddito, originando quel fenomeno del c.d. “Stateless income” di cui parla E. KLEINBARD ( ), riferendosi a quei player multinazionali in grado di non pagare tributi in alcuna parte del mondo grazie alla gestione degli intangibles e dei capitali, collocati appropriatamente nella catena del valore del gruppo.

Il tema è ben noto e discusso sia al livello del G-8 ( ) e del G-20, che in tempi recenti hanno posto la loro attenzione al fenomeno dell”erosione della base imponibile, che si aggiunge a quello, da tempo studiato, della concorrenza da parte dei paradisi fiscali; sia al livello dell”OCSE, che, dopo la pubblicazione di un documento introduttivo su “Base Erosion and Profit Shifting” ( ), ha reso noto nel mese di luglio 2013 un piano di azione (c.d. “Action Plan”) contenente misure di contrasto di tali fenomeni .

A questi fenomeni di erosione o di elusione si affiancano poi quelli di evasione e frode internazionali, che, come sottolineato dalla Commissione Europea nel piano di azione presentato in data 6 dicembre 2012 ( ), sono stati aggravati proprio dalla globalizzazione dell”economia e richiedono, per un contrasto efficace, un”azione coordinata delle Amministrazioni finanziarie; in altri termini, un approccio “multilaterale”, alla stessa stregua di quello posto in essere per contrastare l”inquinamento globale o la volatilità finanziaria.

Gli effetti negativi collaterali di questi processi di concorrenza e globalizzazione sono alla base della svolta, avvenuta alla metà degli anni “90 dello scorso secolo, nell”azione dell”Unione europea in materia di imposizione diretta, particolarmente rilevante per il tema che qui ci occupa.

Nella Comunicazione della Commissione al Consiglio “Verso il coordinamento fiscale nell”Unione Europea: un pacchetto di misure volte a contrastare la concorrenza fiscale dannosa” (COM [97] 495 del 1 ottobre 1997), si introduce infatti per la prima volta, sotto il “cappello” del “coordinamento fiscale”, una distinzione tra una concorrenza fiscale “legittima” ed una “dannosa” (harmful tax competition), per impedire agli Stati membri di adottare o mantenere misure fiscali che siano tali da falsare in modo “sleale” il gioco della concorrenza, attraendo in modo non trasparente capitali ed imprese di altri Stati membri in pregiudizio dei relativi interessi finanziari (cd. “beggar thy neighbour”) ( ).

L”intervento comunitario in materia fiscale non viene pertanto più visto come rivolto al solo obiettivo di eliminare gli ostacoli al raggiungimento del mercato interno ma anche a quello di tutelare gli interessi finanziari dei singoli Stati membri. In questa prospettiva, l”integrazione in materia di imposizione diretta non rappresenta solo più un elemento (negativo) di perdita di sovranità fiscale per gli Stati membri, bensì, in un certo senso, anche uno strumento (positivo) per preservarla.

L”attenzione si rivolge così alle politiche tributarie sleali e dannose, finalizzate ad attrarre investimenti produttivi e finanziari dei soggetti non residenti che, indebolendo le finanze degli Stati membri con pressione fiscale più elevata, ne condizionano la politica economica e sociale e, in definitiva e per quanto di nostro interesse, le scelte politiche sui livelli di welfare ritenuti più soddisfacenti.

Viene meno la logica dell”adeguamento spontaneo “verso il basso”, del cd. “race to the bottom”, della competizione tra Stati membri, alla quale si imputa una allocazione non efficiente delle risorse, la mancanza di equità interstatale e la concentrazione del prelievo verso forme reddituali caratterizzate da scarsa mobilità, in primis il lavoro (ma anche consumi e rendite immobiliari) ( ).

In effetti, dallo studio della Commissione Europea intitolato “Strutture dei sistemi fiscali nell”Unione Europea” pubblicato nel 2012 ( ), emerge come la tassazione effettiva del lavoro, nel periodo 1995-2010 e con riferimento all”Europa a 17 Stati, sia rimasta sostanzialmente stabile, passando dal 34,3% al 34,0%. La media migliora lievemente considerando l”Europa a 27 Stati, con una diminuzione dal 35,3% al 33,4%.

La pressione concorrenziale sulla tassazione del reddito di impresa obbliga, invece, a politiche di abbassamento dell”aliquota, almeno nominale. Ciò emerge dal medesimo studio della Commissione Europea, dove con riferimento alla tassazione del capitale si evidenzia al contrario, sempre a livello europeo, una sensibile diminuzione delle aliquote nominali sui redditi societari, con un passaggio, nell”Europa a 17, dal 36,8% al 26,1%, e in quella a 27 Stati, dal 35,3% al 23,5%.

Il divario crescente tra tassazione del lavoro e del capitale si spiega dunque con la ridotta mobilità del primo rispetto al secondo, unitamente da un lato alla liberalizzazione e globalizzazione dei mercati finanziari, che consentono politiche di “tax planning” su base mondiale, dall”altro al peso crescente della spesa pubblica per i sistemi di welfare e per gli interessi sul debito pubblico, che deve essere finanziata in modo facile e sicuro.

Sistemi di welfare cui la globalizzazione assesta un ulteriore colpo con il c.d. “welfare shopping”, che determina l”erogazione di servizi pubblici essenziali anche a quei soggetti che, producendo redditi e pagando le imposte in altri Stati, non contribuiscono al finanziamento dei suddetti servizi. Come è stato bene osservato, il processo di globalizzazione «ha reso incerto il presupposto su cui sono stati sino ad oggi elaborati gli ordinamenti fiscali, e cioè il presupposto della coincidenza tra chi fruisce della spesa pubblica e il contribuente» ( ).

3. Politiche fiscali e garanzia dei diritti sociali nell”International Covenant on Economic, Social and Cultural Rights.

La relazione esistente tra la sottrazione agli Stati di entrate fiscali determinata dai fenomeni di evasione ed elusione fiscale internazionale, agevolati dai processi di globalizzazione, e la stessa possibilità di garantire sistemi di welfare adeguati, è dunque chiara all”Unione Europea sin dalla metà degli anni “90 ed è stata alla base della “rivoluzione” nell”approccio alle politiche fiscali adottate dagli Stati membri che si è sopra evidenziata.

Una tale relazione inizia tuttavia ad essere ormai ben chiara anche alla Comunità internazionale.

E” in questa prospettiva che si inquadra il documento dell”International Bar Association (d”ora in poi, IBA) dell”ottobre 2013 denominato “Tax abuses, Poverty and Human Rights” ( ), che rinviene il fondamento della lotta ai fenomeni elusivi ed evasivi internazionali nell”obbligo – contenuto nell”art. 2(1) dell”International Covenant on Economic, Social and Cultural Rights (ICESCR) – che gli Stati hanno di destinare alla progressiva ma piena realizzazione dei diritti umani previsti dal medesimo Covenant, le massime risorse disponibili («to the maximum of its avalaible resources») ( ).

In particolare, l”art. 2, par. 1 dell”ICESCR, statuisce quanto segue: “Each State Party to the present Covenant undertakes to take steps, individually and through International assistance and co-operation, especially economic and technical, to the maximum of its available resources, with a view to achieving progressively the full realization of the rights recognized in the present Covenant by all appropriate means, including particularly the adoption of legislative measures”.

Si tratta di una posizione che trova peraltro dei precedenti, anche qui recentissimi, nelle posizioni assunte in tema di evasione fiscale e diritti umani da associazioni di carattere internazionale quali il Business and Human Rights Resource Centre e il Tax Justice Network ( ).

Il tema dei diritti umani economici, sociali e culturali (al lavoro e a favorevoli condizioni di lavoro, sindacali, alla sicurezza sociale, alla famiglia, ad un adeguato standard di vita, alla salute, alla istruzione, culturali, ecc.) è assai delicato, soprattutto per il rapporto con i diritti umani di tipo civile e politico, tradizionalmente posti in una posizione preminente rispetto ai suddetti diritti.

Quelli civili e politici, in quanto libertà di carattere negativo dinanzi ad interferenze statali, sarebbero più esattamente definibili nel loro contenuto, immediatamente applicabili e giustiziabili; quelli economici, sociali e culturali – anche definiti “second-generation human rights” – avrebbero invece un contenuto “legale” inferiore, sarebbero al più oggetto di azioni positive (ma non giustiziabili) realizzabili progressivamente attraverso politiche statali ampiamente discrezionali nel loro contenuto (dunque, più “policy oriented” che con un contenuto minimo standard) e largamente dipendenti anche dalle risorse disponibili.

Tale tradizionale preminenza sembrerebbe emergere prima facie, nel caso del Covenant, dalla previsione della tutela dei diritti civili e politici in un separato Covenant (si tratta dell”International Covenant on Civil and Political Rights – ICCPR) e dalla previsione di una realizzazione appunto “progressiva” (take steps … with a view to achieving progressively) dei diritti economici, sociali e culturali.

Gli studi internazionalistici di questi ultimi decenni ( ), hanno tuttavia dimostrato come una tale netta dicotomia non sussista affatto, da un lato richiedendo anche i diritti civili e politici azioni positive con oneri a carico degli Stati (si pensi ad un sistema di giustizia realmente funzionante o a carceri di standard adeguato), dall”altro potendo anche gli altri diritti essere immediatamente applicabili e suscettibili di una tutela giuridica (il diritto sindacale, la non discriminazione nell”accesso ai servizi educativi o sanitari, ecc.).

La stessa “realizzazione progressiva” è stata interpretata dal UN Committee on Economic, Social and Cultural Rights (CESCR) ( ) come richiedente, in ogni caso, l”adozione immediata di misure “to take steps” in vista, poi di una realizzazione progressiva e piena dei vari diritti e comunque la protezione – anch”essa immediata – di un nucleo “core” minimo dei diritti previsti dal Covenant per i più poveri e vulnerabili cui nessuno Stato può in alcun modo sottrarsi. Gli Stati devono dunque dimostrare, nel senso di essere onerati della relativa prova, che ogni sforzo è stato compiuto per utilizzare le risorse a loro disposizione per soddisfare in via prioritaria quella protezione “core”, ivi compresa la prova di non aver utilizzato le risorse che lo Stato assume insufficienti per garantire quei diritti “core” per spese – quali spese militari o destinate alla élite del Paese – che devono essere postergate rispetto a quelle necessarie per la soddisfazione di tali diritti. Al tempo stesso, questa realizzazione “progressiva” impedisce di adottare azioni che abbiano l”effetto di “regredire” (regressive steps) rispetto al livello intanto assicurato ai diritti in parola.

I diritti socio-economici hanno formato oggetto di sempre maggiore attenzione, e dal dibattito sulla loro consistenza e giustiziabilità si è sempre più passati alla loro crescente accettazione quali norme internazionali suscettibili di rilevanti conseguenze sul piano pratico.

La stessa adozione dell”Optional Protocol al Covenant qui in esame (adottato nel 2008 ed entrato in vigore nel maggio 2013) indica questo cambio di prospettiva, riconoscendo un diritto dei singoli a rivolgersi al CESCR nel caso in cui ritengano violati i loro diritti come risultanti dal Covenant.

Tutto ciò premesso, la tesi di fondo relativa alla applicabilità dell”art. 2(1) anche alle politiche nazionali in materia di evasione ed elusione fiscale internazionale ruota intorno all”utilizzo delle massime risorse disponibili (“the maximum of its available resources”).

Si tratta di una previsione cui non possono di certo essere disconosciuti margini di soggettività in relazione alle politiche fiscali perseguite dai singoli Stati.

L”analisi di quest”ultima ha avuto riguardo, tradizionalmente, al lato della spesa, al fine di assicurare che un”adeguata quantità delle risorse disponibili (quantum) venisse destinata al soddisfacimento dei diritti protetti dal Covenant e i relativi profili qualitativi (segnatamente, quality and utility).

Tuttavia, in tempi recenti è cresciuta sensibilmente l”attenzione anche sul fronte del reperimento dei mezzi, in particolare attraverso lo strumento tributario, che deve essere tale da garantire sia una corretta distribuzione dei carichi impositivi (con imposte non regressive, agevolazioni appropriate, e via dicendo), sia una adeguata riscossione dei tributi, con una amministrazione finanziaria dotata di poteri efficaci di contrasto ai fenomeni di evasione ed elusione fiscale.

E” davvero significativo che questa nuova prospettiva trovi espressa menzione anche nel recentissimo ed importante Commentario al Covenant che qui ci occupa a cura di B.SAUL-D.KINLEY-J.MOWBRAY edito dalla Oxford University Press, che costituisce testimonianza della serietà ed attenzione con cui queste nuove posizioni vengono considerate sotto il profilo scientifico.

La “doppia faccia” della “budgetary equation” viene evidenziata anche da altre organizzazioni internazionali, quali la African Commission on Human and Peoples” Rights, che – dopo aver premesso che gli stati necessitano di risorse sufficienti per realizzare progressivamente i diritti in esame – afferma che tra i vari mezzi attraverso cui gli Stati possono ottenere le risorse necessarie vi è la tassazione; dal che discende l”obbligo per gli Stati di istituire un equo ed effettivo sistema impositivo e un adeguato sistema di budgeting che assicuri che i diritti economici, sociali e culturali abbiano priorità nella distribuzione delle riserve. Riferimenti importanti in tal senso si ritrovano, altresì, nel Report dell”UN Independent Expert on Extreme Poverty and Human Rights datato 17 marzo 2011.

Naturalmente, resta fermo il profilo del corretto impiego delle risorse che, del resto, costituisce la massima legittimazione del prelievo fiscale. Il documento dell”IBA, dopo aver sottolineato l”importanza della lotta all”evasione ed elusione fiscale internazionali per il raggiungimento di una adeguata tutela dei diritti umani, evidenzia con la medesima forza la necessità di un appropriato utilizzo delle risorse così acquisite, quale altra faccia della stessa medaglia e, in tale prospettiva, segnala come anche la corruzione finisca per avere il medesimo effetto di privare i governi di quelle risorse necessarie per garantire il rispetto dei diritti economici, sociali e culturali ( ).

L”art. 2(1) coinvolge peraltro non solo gli Stati ma anche il settore privato e le società in particolare, atteso l”impatto che le loro azioni possono avere sul godimento dei diritti economici, sociali e culturali. Il CESCR ha individuato varie ipotesi relative al ruolo delle corporations e/o del settore privato in generale, di dimensione sia nazionale che sovranazionale, quale il lavoro dei minori, le condizioni di lavoro insalubri, gli effetti della produzione sul diritto alla salute o i comportamenti corruttivi. In questo senso, pertanto, nulla vieta di estendere questa line of reasoning anche a quei comportamenti evasivi ed elusivi riferibili ai soggetti privati e al ruolo che gli Stati, sotto la cui giurisdizione ricadono, hanno nel prevenire siffatti comportamenti.

Si tratta di un profilo del più generale tema della Corporate Social Responsibility (CSR), affrontato sia a livello delle Nazioni Unite (ad es., negli UN Guiding Principles on Business and Human Rights and Related International Standards for Corporate Responsibility del 2011) sia a livello OCSE (nelle Guidelines for Multinational Enterprises). In quest”ultimo caso, peraltro, viene dedicato un intero capitolo all”importanza dell”adempimento degli obblighi tributari da parte delle multinazionali.

Esistono, dunque, numerosi spunti argomentativi a favore dell”esistenza di un collegamento tra il mancato pagamento dei tributi dovuti a politiche fiscali intese a favorire fenomeni di elusione ed evasione fiscale internazionali e il pregiudizio che ciò è suscettibile di recare in ordine alla possibilità di assicurare un”efficace tutela dei diritti economici, sociali e culturali.

Ci si potrebbe tuttavia ulteriormente interrogare circa la “giustiziabilità” dei diritti così come risultanti dal Covenant.

In via preliminare, abbiamo già osservato come la dicotomia, quanto a giustiziabilità/non giustiziabilità, tra diritti civili e politici da un lato e diritti economici, sociali e culturali dall”altro, non trovi più una giustificazione né nella natura dei diritti medesimi, né nell”interpretazione che viene ormai data del Covenant in ordine al contenuto “minimo” precettivo (e non meramente “programmatico”) che ad esso deve riconoscersi.

Scendendo nel dettaglio, il tema della possibile tutela ha ricevuto un forte impulso grazie all”Optional Protocol al Covenant del 2008, che stabilisce adesso tre nuove procedure per la protezione ed attuazione dei diritti previsti dal Covenant stesso.

La prima, di carattere individuale (individual complaints mechanism), attivabile entro un anno dall”esaurimento dei rimedi interni; la seconda, di carattere interstatale (interstate communication) nel caso in cui uno Stato ritenga che un altro Stato non stia adempiendo alle proprie obbligazioni quali risultano dal Covenant, e che richiede che ambedue gli Stati abbiano riconosciuto la competenza del CESCR in materia; la terza, di “indagine” (inquiry procedure), con cui il CESCR può designare alcuni suoi componenti a svolgere una indagine nel caso di grave e sistematica violazione dei diritti previsti dal Covenant.

Si tratta, all”evidenza, di procedure che si adattano difficilmente al tema del rapporto tra politiche fiscali e tutela dei diritti qui in esame.

Per quanto riguarda la prima e la terza procedura – quella individuale e quella di indagine – esse presupporrebbero, infatti, la dimostrazione, di fatto impossibile in virtù della complessità dei sistemi di bilancio statali e della necessità di verificare se le risorse già disponibili siano state impiegate virtuosamente, che con quelle ulteriori risorse si sarebbe potuto ottenere, all”interno del territorio dello Stato chiamato in causa, una maggiore tutela di quel diritto individuale che si assume violato.

Per quanto riguarda la procedura interstatale, due sono le questioni. La prima relativa ai dubbi di carattere generale relativi all”ambito di applicazione, riferito all”obbligo, peraltro dai contorni del tutto incerti ed indefiniti, che gli stati ricchi e sviluppati complessivamente considerati avrebbero di “aiutare” gli stati poveri ed in via di sviluppo nel perseguimento degli obiettivi del Covenant ( ): essa sembrerebbe cioè evocare una portata “extraterritoriale” degli obblighi risultanti dal Covenant, sicché la politica condotta da uno Stato non dovrebbe riguardare solo i diritti dei propri cittadini, ma anche quelli dei diritti di un altro Stato. La seconda, relativa al fatto che occorrerebbe dimostrare, anche qui in modo sostanzialmente impossibile, che dalla mancata cooperazione dell”altro Stato sia derivata l”impossibilità di perseguire, all”interno dello Stato che tale cooperazione ha richiesto, gli obiettivi fissati dal Covenant.

La “giustiziabilità” dei comportamenti dello stato che favorisce pratiche di evasione ed elusione fiscale internazionale non pare tuttavia un punto decisivo della questione, perché ciò che emerge con evidenza dall”azione di contrasto alla elusione ed evasione fiscale internazionale avviatasi e sviluppatasi sostanzialmente negli ultimi quindici anni, è che non si tratta tanto di far valere il comportamento dei singoli Stati sul piano strettamente giuridico, interrogandosi sulla giustiziabilità delle loro azioni od omissioni; quanto piuttosto rinvenire, a fondamento di tale contrasto, dei solidi principi generali del diritto internazionale che giustifichino un intervento da parte della comunità internazionale, nelle sue varie “articolazioni” (OCSE, G-8, G-20, Unione Europea), sul fenomeno in maniera globale.

Sotto questo profilo, la “nuova” interpretazione dell”art. 2(1) del Covenant arricchisce e fortifica, dunque, quell”humus “giuridico-etico” che si pone alla base dell”intervento coordinato e globale di contrasto all”evasione ed elusione fiscale internazionale, che non riguarda tanto quel singolo Stato quanto piuttosto tutti ed indistintamente quegli Stati della comunità internazionale in qualche modo colpevoli di sottrarre, a livello globale, ingenti risorse che potrebbero essere invece destinate alla tutela dei sistemi di welfare.

Sotto questo profilo – e qui concludo – ne risulta anche confermata la tesi di A. Sen, secondo cui le vie “legali”, ancorché rilevanti, non sono da sole sufficienti né per capire né per implementare i diritti umani, attenendo essi ad una dimensione politica, sociale ed economica – oltre che legale; dimensione che, nel caso della lotta all”evasione ed elusione fiscale internazionale, pare ormai aver assunto precisi connotati e rilevante effettività.

Giuseppe Melis

Straordinario di Diritto Tributario

LUISS Guido Carli